(Riporto qui l'articolo del giornalista Clemente Pistilli de "Il Giornale di Latina" che condivido in pieno)
Si fa presto a dire “Je suis
Charlie”, postando un cartello su Facebook o partecipando a una marcia.
Restando in ambito strettamente locale è facile anche scrivere #stoconaielli,
dopo le epigrafi intimidatorie nei confronti della giudice. Lodare la stampa libera
nel corso di incontri o comunicazioni ufficiali rende subito un pubblico
amministratore un moralizzatore. E poi fa così tendenza un po’ per tutti
dichiarare che non c’è più il giornalismo di una volta, quello d’inchiesta, e
che le penne di oggi sono serve del potere. Diverso, però, è cercare ogni
giorno di realizzare un giornale, fare onestamente il proprio lavoro e tentare
di fornire soltanto un quadro e un’analisi ai lettori nel modo più accurato
possibile. Anche in provincia chi “è Charlie” o “#staconaielli” capita che non
#stacoinigiornalisti. Nel momento in cui chi scrive va oltre il comunicato
stampa, oltre la verità ufficiale, quella “velinara” e, senza neppure fare
grandi inchieste, non fosse altro che per la mancanza di mezzi, si limita a sviscerare
le indagini condotte dalla locale magistratura, diventa un fastidio. Un elemento
di disturbo tanto per l’uomo della strada che per quello delle istituzioni.
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La locandina dell'evento |
Un
nemico quando riporta fedelmente i temi oggetto d’inchiesta, come emergono
dagli atti giudiziari, e un nemico da abbattere se prova a contestualizzarli,
mettendo in fila nulla più che dati oggettivi.
A quel punto la stampa libera
non piace più e contro quella stampa si passa all'azione. I sistemi sono tanti
e i colpi hanno ormai in terra pontina cadenza quotidiana. Il primo è quello
dell’insinuare il dubbio, meglio se sui social network, che non hanno nulla di
ufficiale ma da lì i messaggi arrivano presto e a molti. Del resto, anche
Lenin
diceva:
Infanga, infanga, anche se non è vero qualcosa resta. Si comincia così
a insinuare che il tale giornalista sia un
diffamatore di professione o almeno
un incompetente,
un abusivo e pure sgrammaticato, uno soprattutto che non fa
informazione ma colpisce Tizio o Caio per agevolare Sempronio.
Ore passate a
studiare carte e notti davanti a un pc diventano nulla di più che la costruzione
di una gigantesca macchina del fango. E se si riesce a dipingere così un intero
giornale ancora meglio. Poi si alza il tiro:
diffide e
querele, utili a
scoraggiare il cronista dall'andare avanti nel suo lavoro e, se tutto va bene,
anche a far sganciare un bel po’ di soldi a un giornale, così magari, con i
finanziamenti pubblici che sono solo un ricordo,
chiude. Quando poi tutto ciò
non dovesse bastare si attivano i poteri forti, nel tentativo di far cacciare a
pedate chi ha osato fare il suo lavoro, col ricatto, spesso, che in caso
contrario a un determinato organo d’informazione si fa venire meno anche quel
minimo di introito commerciale con cui tira avanti.
Un’inchiesta giornalistica,
scriveva uno degli ultimi grandi maestri, Giuseppe D’Avanzo, che per fare bene
il suo lavoro è finito anche in carcere,
è la paziente fatica di portare alla
luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza.
Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere
e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica. Nel piccolo questo
tanti provano a fare, ogni giorno, 365 giorni l’anno. Questo sta provando a
fare Il Giornale di Latina da oltre un anno a questa parte, con grandi
sacrifici da parte di tutti quelli che, senza andare in piazza, senza
giocherellare sui social network, senza chiedere il sostegno delle
organizzazioni di categoria, ma solo col sudore della propria fronte, cercano
soltanto di fare i giornalisti.
Il resto è “Charlie” da salotto. O da social.
anche dire che questa è la situazione è un peccato mortale!|
RispondiEliminaDi giornalisti modaioli, con il capello lungo, gli occhiali (sono d'obbligo anche se finti) che si pongono proni e non fanno informazione, Latina (e non solo) ne è piena. Di giornalisti che rischiano di persona, che inseguono la notizia, che sono bravi a fare le giuste connessioni tra i fatti, molti ma molti di meno. Poi la tecnica tutta napoletana di sdrammatizzare, di sminuire un fatto grave, di insinuare, di far finta di fare (ammuina), è letale, e questa città di questo sta morendo. Tra napoletani e zingari, i primi ben insinuati nei gangli del potere, nelle istituzioni, anche nelle forze dell'ordine, i secondi vero braccio armato sul territorio.
RispondiEliminaLa paura è che qualche giornalista suoni la sveglia o che qualche commissario sveli ed arresti non più due carabinieri, finanzieri o poliziotti semplici, ma anche chi, sopra di loro, è colluso. Allora il primo viene minacciato pesantemente (ma le indagini languono per lungo tempo) e il secondo, d'urgenza, si premia e si trasferisce.